Scrivere oggi di Bill Russell non è assolutamente cosa facile, semplicemente perchè non sai da dove cominciare, nè cosa mettere più in risalto di un personaggio come lui che ha segnato la storia dentro, ma anche fuori dal parquet.
William Felton da West Monroe, Louisiana, era tutto questo insieme, dai primi passi mossi in quel Sud degli Stati Uniti dove il razzismo ha avuto radici più profonde e meno estirpabili, dagli abusi subiti da papà Charles e mamma Katie da parte di un’etnia bianca che difendeva con il coltello tra i denti i propri privilegi, roba che per noi contemporanei sarebbe vomitevole, eppure era considerata la normalità nella grande potenza a stelle e strisce.
Anche da quello avrebbe imparato William, da quella crudeltà gratuita avrebbe tratto la forza di essere un difensore straordinario, del canestro come dei diritti della minoranza afroamericana.
Ma soprattutto imparerà a sacrificarsi da suo padre Charles, costretto a fare anche da madre dopo la prematura scomparsa di Katie. William aveva solo 12 anni.
E non c’era altra via, se non quella lastricata di ostacoli che una bigotta America continuava a frapporre – si, sembrerebbe paradossale che gli stessi che combatterono il nazifascismo avessero derive discriminatorie, eppure la storia è lì a testimoniarlo – tra lui e la possibilità di emergere, di avere una vita degna.
L’unica via, se ne sarebbe presto reso conto, di sfuggire all’emarginazione ed alla discriminazione sarebbe stato il basket. Gli aveva dato un primo input la stella dei Minneapolis Lakers (si, i Minneapolis Lakers) George Mekan, eppure questo, unito ad un talento debordante, seppur da smussare, non era bastato per farlo scegliere dagli scout dei college, troppo scuro il volto del ragazzone che difendeva saltando ed inventando senza saperlo un nuovo modo di giocare e stare in campo.
Alla fine è Hal DeJulio dell’USF ad accorgersi del suo talento grezzo ed a portarlo in California: lì, tra il 1955 ed il 1956 porterà San Francisco a diventare il punto di riferimento del basket universitario, due titoli NCAA, ma anche della rivendicazione delle minoranze, USF sarebbe stata, infatti, la prima università a schierare tre giocatori afroamericani, Hal Perry, KC Jones e, appunto, Bill Russell, il tutto nonostante il razzismo ricevuto in ogni arena ed in ogni città, anche dagli albergatori.
Bill aveva imparato a difendere il ferro, da solo come in aiuto (portando a casa anche il record di 13 stoppate in una partita), ma anche la propria dignità, come dimostra il rifiuto ad unirsi agli Harlem Globetrotters dopo che il proprietario Abe Saperstein lo ignora per parlare con il suo allenatore.
Da lì la scelta di andare in NBA tramite Draft, non prima, però, di aver portato un oro olimpico da Melbourne.
Il destino vuole che la sua carriera pro si svolga interamente a Boston, quella Boston che odierà in maniera aspra per il razzismo che tollerava, anche se Red Auerbach e Walter Brown (allora presidente Celtics) avevano dato dimostrazione del contrario mettendolo sotto contratto da rookie a cifre che erano quasi pari a quelle di un veterano come Bob Cousy.
L’avversione, però, riguarderà la città, non la squadra, al punto da arrivare a definirsi “un Celtic, ma non un Boston Celtic”.
Sembra quasi paradossale che un uomo che, poi, sarebbe stato parte attiva nel movimento Black Power (al punto che qualcuno lo soprannominò Felton X), abbia trascorso tutta la carriera in un posto che riteneva nemico, eppure è parte integrante della sua personalità, forgiata dallo scontro contro le posizioni dominanti.
Di lui si disse che era un viziato che non firmava autografi ai bambini bianchi, su di lui si scriveranno pagine d’invettive quando, dopo aver vinto (primo nella Storia) il titolo da allenatore dei Celtics, fallirà a Seattle, nonostante la prima qualificazione ai playoff della storia dei Sonics, ed a Sacramento.
Lui subirà, subirà anche rappresaglie forti da parte della parte bianca dell’America, ma continuerà per la sua strada, rifiutando anche ruoli da protagonista, ma non rinuncerà mai ai propri valori, nemmeno dopo il colpo emotivo che rappresentarono gli omicidi di Martin Luther King e Robert Kennedy.
Non rinuncerà mai alla propria dignità, benchè spesso vomitata con modi crudi, troppo schietti per qualcuno.
E passerà il testimone della sua lotta, come fu verso Muhammad Alì, appoggiandone il rifiuto a rispondere alla chiamata dell’esercito.
Di lui resteranno, sul campo, le sfide con Wilt Chamberlain, grande amico nella vita, avversario formidabile in partita.
Fuori dal parquet resta un uomo che non ha mai barattato la lotta per la dignità sociale per un compromesso di apparenza. Per Bill Russell non era importante dare l’immagine della persona buona come il pane, era importante lottare contro il razzismo, e se per farlo fosse stato necessario negare un autografo, ne sarebbe valsa la pena.
In un mondo che oggi vedrebbe i social inondarlo di commenti di improvvisati professori della difesa dei diritti, di “t’insegno IO come difendersi dal razzismo” detti da persone che il massimo della discriminazione che hanno provato è la precedenza in fila a chi ha difficoltà di deambulazione, Bill Russell sarebbe un nemico pubblico, un ingrato (corsi e ricorsi storici) verso chi gli avrebbe fatto la gentile concessione di considerarlo uguale.
In un mondo di oggi servirebbero più Bill Russell.
Buon viaggio, Leggenda.
Elio De Falco