Al momento della sua nomina quale successore di Mike D’Antoni, coach Silas sapeva benissimo quanto scottasse quella patata che stava per agguantare. Non era una situazione facile, con Houston appena uscita dal grande ballo di Orlando e piccole-grandi situazioni non proprio rosee accadute all’interno della bolla. Però pensava che avrebbe potuto quantomeno contare sull’apporto di due ottimi amici come Russell Westbrook e James Harden, il primo altalenante durante tutta la stagione, il secondo sempre suo livello da MVP. Malauguratamente abbiamo sbagliato l’appoggio comodo al vetro, usando un paragone cestistico, perché come il già visto in Italia Mike ha chiuso la porta dietro di sé, un malcontento finora mai espresso è eruttato come un vulcano: il risultato ha portato la partenza di Westbrook verso la capitale in cambio di John Wall (fermo da due anni) e dei malumori (che nemmeno ha cercato di celare) da parte di James Harden.

In questo scenario, Christian Wood si è trovato inaspettatamente con il coltello dalla parte del manico, facendo quello che gli riesce meglio: lavorare duro. Si è allenato tanto affinando al meglio il suo gioco durante il periodo lontano dai campi ed ha fiutato un’occasione più unica che rara. Rallento volontariamente un attimo, perché già da questo inizio di stagione la domanda più assillante nei suoi confronti è proprio “Ma chi è Christian Wood?” e nel rispondervi se già avevate in testa la storia di Jeremy Lin ai tempi del Madison, mettetevi nell’ordine di idee che per certi versi questa storia è ancora più incredibile.

Nato a Long Beach, in California, è passato dal college a Las Vegas (UNLV) per poi approdare nella NBA dal retro bottega. La notte del Draft 2015 è forse stata la peggiore della sua vita cestistica: le sue quotazioni crollarono andando undrafted. Diventa il fotogramma della disperazione e della delusione, venendo immortalato nel suo vestito buono, con la testa tra le mani, seduto da solo a commiserarsi. La foto fa il giro del mondo ed in realtà non furono tanti a chiedersi chi fosse quel ragazzo. La NBA arriva comunque ma è la pallina di un flipper. Rimbalza continuamente tra la NBA e la NBDL, soprattutto i Delaware 87ers (affiliati ai Sixers) ma anche Wisconsin ed un pezzettino di Charlotte. Poi un barlume in fondo al tunnel: sono i Pistons che, almeno nell’ultimo periodo, un piatto di minestra non lo negano a nessuno. La stagione a Detroit decolla, Wood è fisso in campo ed il suo apporto è apprezzato da compagni ed allenatori. Sa bene la fortuna che ha avuto, ma come ben sappiamo, la fortuna va costruita: “Sono stato perfino tagliato da una squadra in Cina perchè dicevano che non ero bravo abbastanza. E’ stato davvero un duro colpo.” Se proprio dobbiamo essere del tutto onesti, e la situazione immagino lo richieda, il draft 2015 è stata, ahilui, solo una delle delusioni, perché la stessa sera dopo aver accompagnato all’aeroporto la fidanzata dell’epoca, ella ha pensato bene di far perdere del tutto le sue tracce: “L’ho accompagnata all’aeroporto, subito dopo il draft. Doveva tornare a casa. Solo che poi non si è più fatta rivedere.

Wood era totalmente abbandonato e nel momento di massimo sconforto si è aggrappato all’unica cosa che lo faceva stare bene, ovvero giocare a basket: “The Marathon continues” ammonisce sempre LeBron. E perdiana se ha ragione. A differenza, però, di un Lin qualsiasi, abbiamo già potuto apprezzarlo lungo l’arco della scorsa stagione e momentaneamente non ci sono tifosi al palazzetto a rimarcare l’incredibile stupore e la grande voglia di emergere di un ragazzo che non sarà contento fino a che non avrà raggiunto il suo obiettivo primario: “Voglio diventare un All Star. Sento di poter diventare uno dei migliori in questa lega.” A 25 anni le premesse sembrano buone, dato che sta girando a quasi 24 di media e 10 rimbalzi a partita. Numeri che valgono cifre ben più alte dei suoi 41 milioni in 3 anni firmati proprio nell’ultima estate con la franchigia texana. Wood nonostante tutto vuole rimanere con i piedi per terra e continua a lavorare duro ogni giorno, ben conscio che per raggiungere il suo obiettivo ha anche bisogno dei suoi compagni. Houston però non è messa così bene come si sarebbe pensato appena 3 mesi fa. E qui appunto si ritorna al Silas che trasale di apertura articolo. La squadra trova dei grandi alti e dei pessimi bassi, nel primo possiamo annoverare il rientro nell’aula magna del basket di John Wall (23/5/5 al momento di scrivere) con partite da 28 come quella persa contro Indiana. Nei bassi troviamo il comportamento di Harden, discontinuo e fuori forma nonostante le statistiche siano di assoluto livello, la tolleranza a Cousins (2 tecnici ed espulsione in appena 3 minuti nella gara contro Dallas di lunedì 4 gennaio) ed un malumore generale che serpeggia nello spogliatoio dei razzi.

Malumore che porta il computo parziale di squadra a 2 vittorie e 4 sconfitte, oltre che una sensazione di sospensione perpetua, come se tutta la squadra fosse soltanto in attesa di capire chi è il “vincitore” del braccio di ferro Harden-Rockets. Le virgolette, capirete, sono d’obbligo, non solo per dare enfasi al discorso. In questa situazione, almeno dal punto di vista di chi scrive, non può uscirne nessun vincitori. Ad Harden resta solo quello che ha dichiarato, non molto tempo addietro: “Devo molto a Houston. Ero convinto che la mia carriera sarebbe stata quella di un qualsiasi sesto uomo, vedendo come andava ai Thunder. Loro mi hanno fatto capire che potevo essere molto di più!”.

I sentimenti passano, lo sappiamo, non dobbiamo farne una colpa a nessuno se Harden non vuole più restare con la casacca di Houston sulle spalle. Va detto, anche a discapito di una valutazione non completamente oggettiva (non ho mai indossato una casacca NBA se non al campetto con gli amici), che le due parti si sarebbero potute comportare in maniera ben diversa al fine di, almeno, non danneggiare il resto della squadra.

Ma al di là di come andrà a finire il Harden-drama, una cosa è certa: Woods c’è! E meno male.

 

Raffaele Camerini