Si sono concluse le NBA Finals 2022, teatro dell’ennesimo trionfo di Steph Curry e della caduta dei giovani Boston Celtics, primi tra gli sconfitti. Una serie senza esclusione di colpi, piena di tatticismi, di braggadocio da parte dei veterani e di giovanile voglia di mostrarsi forti. Protagonisti e comparse, starter e riserve, coach e general manager, ognuno ha voluto dire la sua. In questo articolo esaminiamo insieme cosa ci ha insegnato la vittoria dei Golden State Warriors e cosa riserva il futuro per le due contendenti di questa incredibile serie.
LA RIVINCITA DEL TEAMBUILDING
L’arrivo di LeBron James a South Beach ha creato un cataclisma nella NBA nel 2010, dando vita all’inarrestabile ascesa dei Big 3, dei terzetti di superstar costruiti a tavolino con buona pace di salary cap e luxury tax. Anche gli Warriors non hanno saputo resistere, aggiungendo, ai tempi, Kevin Durant ad un roster capace di vincere 73 gare nella stagione precedente.
Eppure, per la seconda stagione successiva, non è stato un super team a vincere l’anello. Anzi, la finale di quest’anno ha dimostrato ancora una volta quanto possa portare lontano la sapiente costruzione dei roster.
Da una parte la dinastia dei Dubs, al quarto anello in 8 anni, costruito sulle spalle di Curry, un ragazzino magro da Davidson College, Klay Thompson e l’incredibile Draymond Green. Intorno a loro, una schiera di reietti, di bust, riscattati dal genio di coach Steve Kerr, uno che di talento ne sa qualcosa (chiedetelo a Michael Jordan).
Andrew Wiggins, partito da Minnesota senza più aspettative addosso, è stato probabilmente il secondo miglior giocatore degli Warriors in finale, superando ogni limite sia in attacco che in difesa. Jordan Poole e Gary Payton II hanno trascorso tempo in G-League per migliorare le proprie capacità. Kevon Looney ha giocato ogni singola partita della stagione (104 in totale!), giocando poco a tratti, per poi esplodere sulle plance ad ogni opportunità.
E poi quelle giovani promesse, ottenute grazie a sapienti scambi: Moody e Kuminga sembrano destinati ad imparare dai campioni e diventare sempre più importanti per i prossimi tentativi dei Dubs.
LA MAGIA DI AINGE
Dall’altra parte l’ottimo e innegabile lavoro al draft di Danny Ainge, che ha saputo sfruttare le scelte ottenute girando Paul Pierce e Kevin Garnett ai Brooklyn Nets per ottenere Jaylen Brown e Jayson Tatum tra il 2016 e il 2017. In mezzo, tra tante scelte sbagliate (fra cui Ante Zizic, Guerschon Yabusele, Ben Bentil, Jordan Mickey…) anche Marcus Smart, cuore pulsante dei Greens in difesa e fresco di DPOY, nel 2014; Robert Williams III, che se non fosse stato per l’infortunio sul finale di stagione avrebbe facilmente meritato un posto nel primo quintetto All-Defense, nel 2018; e Grant Williams nel 2019.
Già così è evidente l’impatto che il draft ha avuto nella costruzione del roster dei Celtics che ha raggiunto la finale. Aggiungiamo poi gli importanti minuti di Payton Pritchard e il sapiente scambio che ha portato a Boston Derrick White e voilà, anche la panchina è a posto. È insomma evidente come nessuna di queste due squadre abbia dovuto spendere per costruire l’identità della propria franchigia, se non per il solido Al Horford, preso a poco dopo che le esperienze a Philadelphia e OKC hanno fatto credere a chiunque che fosse bollito.
IL LAUREATO
Steph Curry ha appena vissuto una serie di giorni che ricorderà per tutta la sua vita. Il 15 maggio, dopo oltre 12 anni dal suo debutto in NBA, Curry è tornato a Davidson College per ottenere finalmente la sua laurea, a cui ai tempi aveva rinunciato per entrare nel Draft. Il 16 giugno vince il suo quarto anello e il suo primo Finals MVP. Il giorno dopo arriva la notizia tanto agognata: Curry sarà il primo giocatore ad avere il suo numero di maglia ritirato da Davidson.
Perché non prima? Semplice: Davidson impedisce che siano ritirati numeri di giocatori che non si sono laureati. Può sembrare una sciocchezza, ma tornare lì dove tutto è iniziato ha qualcosa di speciale.
Così come speciale è stata la serie di Curry. 31.2 punti, 6 rimbalzi, 5 assist e 2 palle rubate a partita, il tutto contro la miglior difesa della NBA. Miglior marcatore in ogni singola partita tranne quella terribile gara 5, con il picco di 43 punti raggiunti in gara 4 a compensare. Il tutto tirando con il 48% da 2 e con il 43% da 3. Ah sì, e tutto questo rientrando da un infortunio: ricordiamo che nella prime 4 gare contro Denver partiva dalla panchina.
Finalmente Steph sta ricevendo il rispetto che merita. Ormai è innegabile: Wardell Stephen Curry è uno dei 10 migliori giocatori di basket di tutti i tempi.
VECCHI VOLPONI
Insieme a lui, ancora una volta, i compagni di sempre.
Klay Thompson ha dovuto stare lontano dai parquet per oltre due anni dopo quel terribile infortunio nelle Finals 2019. Rientrato il 9 gennaio, era difficile pensare che potesse tornare come prima: rallentato in difesa, meno fiducioso nei propri mezzi. Poi qualche sprazzo: 33 punti contro i Lakers, 38 contro i Bucks (8/14 da 3 punti). Oltre i 30 punti nelle sue tre ultime gare della stagione, con i 41 contro i Pelicans, season high, a far sognare. Nei playoff, Game 6 Klay frulla Memphis: 30 punti, 8/14 da 3. Poi lo fa ancora, 32 punti contro Dallas, si va alle Finals.
Nelle Finals mostra stanchezza, tira 35% dal campo. Eppure c’è e se lo merita, perché ha saputo rialzarsi e tornare a infilare bombe insieme al suo Splash Brother Curry. Non sarebbe stato lo stesso senza di lui.
Così come non sarebbe stato lo stesso senza Draymond Green. I numeri dicono 8 punti, 7.2 rimbalzi, 6.3 assist, 1.1 rubate e 1 stoppata a partita, contro 2.7 perse. Ma si sa che con Green i numeri non sono mai tutto. Su 22 partite di playoff è in negativo nel plus/minus solo 6 volte (una meno di Curry, per capirci). In mezzo alle critiche di tutti, a chi diceva che stava faticando in finale perché perdeva tempo a fare podcast, a chi diceva che era bollito.
Lui ha risposto nel modo migliore: 12 punti, 12 rimbalzi, 8 assist, 2 rubate e 2 stoppate in Gara 6 per chiudere la serie. Con buona pace dei critici. E come abbiamo detto anche prima di Gara 5, era ciò di cui i Warriors avevano bisogno. E di cui Steph aveva bisogno: non sarebbe stata la stessa cosa senza i compagni di sempre.
LA GIOVENTU’ VERDE COME LA SPERANZA
Nulla è perduto per i Boston Celtics. La loro core è composta di giovanissimi (Brown ha 25 anni, Tatum e Rob Williams 24, Smart 28), ma non di mocciosi sporchi di latte. Sebbene questa sia stata la prima apparizione alle Finals dal 2010, Tatum e i suoi hanno giocato in ben 4 Conference Championship negli ultimi 6 anni (2020, 2018 e 2017 i precedenti).
La crescita di Tatum lo ha saldamente proiettato nello star system della NBA, coronato dal raggiungimento dell’All-NBA First Team. Il giovane di St. Louis ha mostrato una consapevolezza maggiore del suo ruolo, che si è espanso sempre di più da quando Kyrie Irving ha lasciato Boston, fino a diventare quello di vera e propria prima opzione offensiva. Le Finals hanno mostrato qualche limite, soprattutto nelle difficoltà a concludere al ferro, ma non è di certo la fine del mondo: sono sicuro che presto si ritroveranno ancora lì.
Insieme a lui Jaylen Brown, nel 2020-21 All-Star. All’inizio dell’anno c’era chi si chiedeva se lui e Tatum potessero ancora giocare insieme. Brown ha risposto di sì, con la consistenza e l’esplosività che lo contraddistinguono. In 6 gare di Finals è stato il miglior marcatore di Boston, con 23.5 punti a partita insieme a 7.3 rimbalzi e 3.7 assist. Anche lui ha mostrato i suoi limiti: in primis, le difficoltà al dribbling contro una difesa aggressiva.
Ma qui arriva il punto cruciale: Boston ha appena iniziato. La scelta di coach Ime Udoka si è rivelata fenomenale, portando Boston a decollare da quel terribile record di 18 vittorie e 21 sconfitte a inizio gennaio fino ai playoff, con un record di 33 vittorie e 10 sconfitte il resto della stagione. I giovani di Boston hanno margine per crescere, e con una leadership del genere non c’è dubbio che lo faranno.
IT’S GONNA BE A LONG LONG TIME
Se c’è qualcuno per cui la sconfitta brucia di più, quello è di sicuro Al Horford. Il dominicano era il proprietario della più lunga striscia di partite di playoff senza mai disputare le Finals, arrivata a ben 141 gare in oltre 15 anni in NBA (adesso il primatista è Paul Millsap, fermo a 130). Ora che finalmente quella macchia sulla sua illustre carriera è scomparsa, la sconfitta contro Golden State ha un peso specifico importante.
Horford non è propriamente un ragazzino (36 anni) e non rientra esattamente nei piani futuri dei Celtics. La speranza per Brad Stevens è che Rob Williams III si prenda di diritto il ruolo di centro in quintetto, magari sfruttando quest’ultimo anno di contratto di Horford per racimolare quante più preziose lezioni possibile. Certo, non è detto che Boston si libererà di lui; magari con un contratto esiguo potrebbe pensare di estendere la sua carriera ancora un anno o due.
Quello che è certo è che la finestra dei Celtics si è appena aperta, ma quella di Big Al sta per chiudersi. E sarebbe un peccato se la sua unica apparizione alle Finals fosse questa, perché per il suo modo di giocare e di guidare una squadra Horford merita molto di più. Se solo non fosse esistito LeBron James, chissà quante Finali avrebbe giocato…(Horford ha perso contro LeBron in 5 serie di playoff nella sua carriera, ben 3 volte in Finale di Conference).
DINASTIA? DINASTIE?
I Golden State Warriors hanno vinto il loro 4° anello in 8 anni, confermando che sì, sono una dinastia a tutti gli effetti, checché ne vogliano dire i professoroni del basket. Curry si sarebbe meritato almeno un Finals MVP in più, ma non importa. Ha ottenuto il suo riconoscimento. Thompson è rientrato a tutti gli effetti, Green sta rallentando ma sa ancora dominare, Poole e Wiggins hanno un futuro radioso. E i giovani sono pronti e affamati: Kuminga non ha neanche 20 anni.
Boston ha una schiera di gambe fresche e menti calde con il fuoco negli occhi, due ali capaci di fare quasi tutto in campo e un sistema difensivo spursiano (e non è mica casuale: Udoka giocava per Popovich, ricordiamolo). Ogni anno una nuova sfida e un nuovo livello raggiunto da Tatum, Brown e Smart.
Sembra inevitabile che gli Warriors, dati per morti due anni fa, siano pronti a rimettersi in gioco. Sazi? Mai. E Boston ha la grinta dello sconfitto dalla sua parte. Non sappiamo ancora quanto le loro pretese varranno in una lega che ogni anno si rivoluziona, ma quello che è certo è che la lotta per l’anello non è mai stata così dura. E noi non vediamo l’ora di vedere cosa succederà l’anno prossimo.
Le statistiche sono state prese da BasketballReference
FOTO: Steph Curry (NBA.com)
Yuri Pietro Tacconi