EDITORIALE
Eccoci, finalmente, riprendendo un discorso con i Giochi olimpici interrotto ormai da diciassette anni. Lo lasciammo raccontando la medaglia d’argento appesa al collo di Galanda, Basile e degli altri che, guidati da Carlo Recalcati, ci avevano regalato una fantastica Olimpiade condotta ad Atene in crescendo, come tutte le imprese, tornando sul podio ventiquattro anni dopo Mosca. Da allora solo delusioni, un movimento sempre più allo sbando fino ai timidi segni di ripresa delle ultime stagioni. Un buon Europeo a Lilla, discreto ad Istanbul, in mezzo l’amara delusione del preolimpico di Torino, beffati sul filo di lana dalla Croazia. E poi il lento lavoro di ricucitura di Meo Sacchetti che già in Cina, pur uscendo a Wuhan, fortunatamente in anticipo sul covid, aveva disputato una non disprezzabile World Cup. Fino a quel 4 luglio che ricorderemo come la festa dell’indipendenza del nostro basket: dai pregiudizi, dagli errori, dall’ottusità, dalla scarsa fiducia nei nostri giocatori. Battere la Serbia in casa loro e nell’appuntamento al quale la squadra di Kokoskov e un intero Paese davano il massimo dell’importanza, è stata un’impresa di incredibile valore che il Ct ha costruito con pazienza, con un lavoro certosino di ricerca e di sperimentazione, ruotando tantissimi giovani, costruendo le basi per una Nazionale che, se non già qui, tra tre anni a Parigi potrebbe tornare tra le protagoniste. A patto di crederci e di restituire alla squadra azzurra, specchio nel mondo della pallacanestro italiana, quella considerazione che non gli è mai stata affidata a sufficienza, intesa spesso come un corpo estraneo, un obbligo subìto, un ostacolo sul percorso, in verità molto modesto, dei club.
Torniamo a Saitama quindici anni dopo un Mondiale che, non fosse stato per un pallone scelleratamente buttato al vento nei secondi conclusivi del quarto di finale con la Lituania per lanciare il contropiede vincente di Angelo Gigli, avrebbe potuto regalarci ben altre soddisfazioni. Ancora Recalcati in panchina, in campo Belinelli che quel Mondiale se lo ricorda bene perché a Sapporo nella fase preliminare contro gli Usa, mentre Mancinelli teneva a bada con successo LeBron James, sfornò una prestazione offensiva da far accendere su di lui i riflettori della Nba. Gli Usa – come già due anni prima ai Giochi d’Atene -, gettarono al vento il campionato iridato facendosi imbrigliare in semifinale dalla Grecia che poi lasciò l’oro alla Spagna. Gli Usa trassero giovamento da quella nuova umiliante batosta dominando nei dieci anni successivi (Pechino, Londra, Rio de Janeiro e in mezzo i mondiali di Istanbul e Madrid) prima di ricadere nell’errore di inviare a Pechino una squadra troppo giovane e presuntuosa.
Ma questa è un’altra storia. Quella che ci interessa è tutta ancora da scrivere, e cominciando da domani affrontando all’alba (in Italia, ora di pranzo a Tokyo) la Germania, che negli anni si è irrobustita anche se, ad eccezione del lampo di Monaco ’93, con l’oro europeo vinto da Welp con la delittuosa connivenza di una Russia assai più forte ma altrettanto ingenua nell’ultima azione, non ha mai trovato altre occasioni di gloria, nè con Detlef Schrempf, il suo primo grande campione, nè con Dirk Nowitzki.
La partita è subito decisiva in un torneo così corto: vincere significherebbe mettere un piede e mezzo nei quarti di finale, primo obiettivo degli azzurri, vista la potenza dell’Australia e le insidie di una Nigeria americanizzata in campo e in panchina; crederci è un obbligo, affrontando i tedeschi con la stessa serenità con cui sono passati a Belgrado contro una Serbia presuntuosa e convinta di non dover faticare troppo. E invece le armi di questa Italia stanno proprio nel modo in cui ha saputo capovolgere il pronostico dando una lezione di concentrazione, di aggressività in difesa, di scelte lucide in attacco.
Per gli azzurri è un banco di prova anche per la loro carriera: già la qualificazione olimpica li ha resi protagonisti del “mercato”, confermarsi a Tokyo con una buona Olimpiade aumenterebbe quotazioni e considerazione. Ne hanno bisogno loro, ne ha bisogno il nostro basket per scrollarsi finalmente di dosso la polvere di diciassette anni di semianonimato. Sacchetti ha naturalmente confermato la squadra di Belgrado con l‘unica eccezione di Abass, ma come poteva dire no alla disponibilità espressa da Danilo Gallinari? L’entusiasmo e la convinzione dell’uomo di Atlanta, che ha appena concluso una delle sue migliori annate, espressi anche quotidianamente nei tweet lanciati da Tokyo, fanno credere che il sogno olimpico realizzato trovi riscontro in un efficace contributo tecnico, atletico e di esperienza sicuramente determinante per poter ipotizzare un lungo cammino.
Domani, con Australia-Nigeria (alle 10.20) e con Usa-Francia (alle 14) e lunedì con Argentina-Slovenia, capiremo subito cosa ci aspetta, ma anche cominceremo a identificare le chiavi di lettura e i valori di un torneo che, con gli americani da scoprire (avvicinamento incerto, i tre di Milwaukee appena arrivati dopo le fatiche della finale con Phoenix), appare al momento davvero incerto.
Intanto l’Olimpiade è partita con le prime medaglie azzurre: una d’argento estratta dall’inesauribile miniera della scherma con lo sciabolatore foggiano Luigi Samele, l’altra, d’oro, portata a casa nel taekwondo dal giovanissimo Vito Dell’Aquila, un ragazzo di Mesagne che si allena a Brindisi, culla del basket meridionale. Ed è partita anche con la prima vittoria delle ragazze del 3×3, di misura sulla Mongolia, seguita dallo stop contro la Francia che alla distanza ha fatto prevalere la sua superiorità: domani, contro Romania e Cina, c’è però l’obbligo di blindare la qualificazione per i quarti di finale.