In occasione del “Bianchini Day”, che si celebrerà domenica con la partita di A2 tra Luiss Roma e Cantù in scena al PalaTiziano di Roma, Valerio Bianchini ha parlato a Basket Magazine toccando diversi temi, dai suoi ricordi più belli nella capitale al perchè il basket romano non riesce più a raggiungere la serie A parlando anche di Cantù, squadra da lui allenata e con cui ha vinto praticamente tutto. Ecco le sue parole:
“Questa giornata significa molto, un riaggancio con la Roma che ho amato. Io arrivai a Roma negli anni settanta, ero già stato nel 1969 come allenatore delle forze armate. Nel 1972 sono venuto chiamato dalla Stella Azzura e sono rimasto sette anni e devo dire che siamo partiti dalla serie B. Ho molta riconoscenza con la Stella Azzurra dato che con loro sono diventato un allenatore di serie A, grazie a quei ragazzi. Qui a Roma ho conosciuto mia moglie Marina e ci siamo sposati poi quando ero a Cantù l’anno dopo. Poi sono tornato nella capitale, dopo l’esperienza con Cantù ed ho avuto tre figli, dunque questa è una città per me importante anche a livello familiare oltre a quello professionale, Roma ha significato tanto per me. La felicità professionalmente di aver portato la Stella Azzura fino al quarto posto, prima brancolava tra la serie A2 e la serie A. Poi con l’aiuto della società di Luciano Acciari e di Paolo Buitoni di Buitoni-Perugina siamo arrivati fino alla quarta posizione. La soddisfazione vera l’ho trovata poi a Cantù dove abbiamo vinto tutto, poi è arrivata l’offerta da Roma ed anche per ragioni familiari ho accettato. Al tempo il Banco Roma era agli inizi, era appena arrivata in serie A, però ho visto delle possibilità nell’importanza del proprietario, che era una delle banche internazionali più famosi. Mi aveva attirato anche il fatto che c’erano molti ragazzi romani tra i giocatori, sarebbe stato facile fare un’identificazione della società come il basket di Roma che poteva crescere e così è stato. C’è stato un altro aspetto del Banco di Roma che mi interessava ed era la presenza di un pivout di valore come Polesello. Avere due centri mi consentiva di scegliere l’americano tra gli esterni e questo mi consentì di andare negli USA a trovare Larry Wright, che poi fu il catalizzatore degli anni romani. Poi ci furono quei tre anni molto belli che mi permisero poi di allenare la Nazionale”.
I ricordi più belli che lo legano al basket romano: “Un momento particolare fu con la Stella Azzurra quando eravamo ancora in serie B, ma la società molto opportunamente decise di spostarsi al PalaEur, dato che il nuovo proprietario Buitoni-Perugina aveva più ampie prospettive. Andammo al PalaEur e le prime partite le giocammo in questa grande arena con i soli fedelissimi della Stella Azzurra, però la società gestita dai fratelli Acciari fu molto lungimirante, cominciò a costruire intorno all’Eur società di minibasket ed in ambito giovanile. Invitavamo i ragazzi a vedere la partita, invitavamo anche i genitori e nel giro di quattro-cinque anni arrivammo ad avere un pubblico di sette mila spettatori ogni giornate, quello è un bellissimo ricordo. Poi ci furono i trionfi con il Banco di Roma, su tutti la finale contro Milano, bisogna considerare che fino a quel momento lo scudetto non era uscito dal quadrilatero del nord Cantù-Milano-Varese e Bologna e noi sfatammo questo tabù. Questo fu di traino anche per lo scudetto di Pesaro, quello di Caserta e la crescita del sud anche con Reggio Calabria e poi le squadre siciliane. Il Banco di Roma ha cambiato le sorti del basket in Italia, che si identificava soprattutto con il nord Italia, noi rompemmo quell’incantesimo e con quel successo facemmo crescere sia il centro ma anche il sud. Lo scudetto nostro ha aperto l’orizzonte del basket in Italia”.
I suoi trionfi dallo scudetto alla coppa campioni con il Banco Roma: “Lo scudetto è stato un blitz che abbiamo fatto, la squadra l’anno prima aveva lottato per non retrocedere. Siamo stati outsider, nessuno si aspettava potessimo arrivare a quella dimensione lì. Avevamo una squadra di romani che ci credevano, come Enrico Gilardi, Fulvio Polesello, Stefano Sbarra. Già allora era difficile trovare una squadra di ragazzi usciti dai campetti della stessa città e questo era una forza ed un orgoglio, io ho puntato molto su questo e sono stato facilitato dal fatto di giocatori come Gilardi, Solfrini ed un Larry Wright che aveva una classe e voglia di vincere. Questo ci permise di chiudere primi la stagione regolare, poi abbiamo passato tutti gli ostacoli fino alla finale di Milano. Milano allora giocava al palazzo dello sport di San Siro, che conteneva 14-15 mila spettatori ed era pieno quando giocammo lì, come fu al PalaEur che raggiunse 16 mila spettatori, record assoluto italiano di presenze. Quelle partite lì furono tre grandiose battaglie ed è stato uno spot meraviglioso per il basket in Italia. Abbiamo partecipato per la prima volta nella storia alla Coppa Campioni arrivando fino in finale a Ginevra contro una squadra forte come il Barcellona. Questi contatti tra Cantù e Roma sono stati anticipati quando allenavo a Cantù, dato che quando allenavo lì arrivammo in finale contro il Barcellona e la finale veniva giocata a Roma. Io ricordo che ero scettico, al tempo il basket nella capitale era quasi sparito e pensavo ci sarebbe stato il vuoto nelle tribune del PalaEur. Quando eravamo sul pullman vedevamo il palasport totalmente illuminato ed il parcheggio era totalmente pieno. Appena entrati in campo avevamo una grandissima rappresentanza di sportivi romani che erano venuti a sostenere Cantù, da lì mi è nata l’idea che forse si poteva rilanciare il basket romano. Roma continuava a produrre giocatori e tifo, aspettavo l’evento e poi con il Banco di Roma l’evento arrivò”.
Le differenze tra la sua esperienza alla Stella Azzurra e quella al Banco Roma: “Principalmente erano le risorse economiche, successivamente sono calati dopo aver conquistati lo scudetto, la coppa campioni e la coppa intercontinentale, dopo quel momento lì ha dovuto stringere fino ad anni dopo a trasferire la squadra al Messaggero. Anche stamattina camminando per Roma sono stato riconosciuto e ricordano gli anni fatti a Roma, dato che in quegli anni a poca distanza sia noi vincemmo lo scudetto che la Roma calcio e l’anno successivo noi vincemmo la coppa campioni e la Roma perse la finale di Champions League con il Liverpool. Fu un momento di grande risveglio dello sport romano, a livello di scudetto e coppe europee ed i tifosi sulle coppe europee”.
Su come porto Larry Wright a Roma: “Quando arrivai a Roma avevo due pivout, Kim Hughes e Fulvio Polesello, poi mi portai anche Solfrini, era un ottimo giocatore, un’ala molto efficace ed intelligente. Io venivo da Cantù dove avevo avuto un grandissimo playmaker come Marzorati e lo avevo visto lottare contro D’Antony della squadra di Peterson, da lì ho capito l’importanza del playmaker. Avevo già in mente qualcuno e pensavo a Larry Wright, ma era sparito dalla circolazione. Sono andato in America dal capo degli agenti americani e gli ho chiesto di darmi informazioni, Wright aveva da poco vinto il campionato NBA con Washington. Lui mi disse che era tornato al suo College a Monroe in Louisiana e mi disse “penso che non sappia nemmeno dove sia l’Italia”. Non mi sono arreso, ho preso un aereo e sono arrivato a Monroe. Mi è venuto a prendere, mi ha detto che durante la pausa pranzo giocavano tra amici al “Recreation Center”, mi porta lì. Trovo un capannone, ero abituato alle grandi palestre delle università americane. C’era lui che era un campione NBA, c’erano ragazzi di College, c’erano anche dei muratori, il lattaio. Entro e vado sulla tribuna in alto, ma lui mi dice di no e di star vicino alla porta, poi mi dice perchè qui non essendoci l’arbitro ogni tanto si litiga. Io gli dico che anche in Italia è così, ma lui mi dice “ma qui tirano anche fuori i coltelli” e dunque che era meglio che stavo vicino alla porta. Ero venuto da Long Beach ed invece ero lì, ma è stato importante perchè a quel punto è iniziata una litigata tra i giocatori, ma Larry Wright gestiva gli alterchi e mi diede l’idea che era un leader che potesse gestire un gruppo. Larry Wright sembrava fare un piacere al capo degli agenti, dovendo prendere l’aereo più tardi, mi ospitò a cena. Vado a cena a casa sua e nel salotto vedo foto di tanti giocatori che avevano giocato in NBA, di tanti personaggi che avevano anche giocato in Italia, allora gli dissi che avevano giocato nel nostro paese. A quel punto ha iniziato ad interessarsi ed ha capito che si potesse giocare a basket anche al di fuori degli Stati Uniti. Alla fine siamo riusciti a convincerlo”.
Sul motivo che le realtà romane non riescano a ritrovare la massima serie, ovvero la serie A: “Serve quello che non c’è più stato da quando i costruttori della Lamaro hanno tirato i remi in barca, finchè c’era Veltroni che stimolava spendevano. Per giocare in serie A serve almeno un budget di quattro-cinque milioni, che non sono nulla rispetto ai quaranta milioni di Milano, però ti consento di giocare per non retrocedere. Non c’è purtroppo a Roma nessuno che investe su quello, la situazione è questa e sarà sempre più difficile, a meno che non venga un investitore da fuori. Purtroppo è sempre stato così, con la Stella Azzurra c’era Buitoni-Perugina, poi ci fu il Banco di Roma che era un’azienda internazionale, poi il gruppo Ferruzzi, non c’è stata mai una vera grande azienda che ha avuto coraggio e fede di accostare il proprio nome accanto a quello del basket romano”.
Sulla Luiss Roma: “La conosco bene e sono un loro grande ammiratore. Hanno questa meravigliosa utopia di far studiare e giocare i ragazzi, che in America succede nei College. In Italia invece questo non succede, un ragazzo di talento che esce dal liceo, si mette in queste squadre semiprofessioniste di B o C e poi non può andare all’università e questo è un dramma, come ci sono chi potrebbe giocare ad un certo livello, che non possono andare perchè devo frequentare l’università. Questo è un paradosso del basket italiano veramente deplorevole, la Luiss in questi anni c’è riuscita, a costruire una struttura in cui i ragazzi studiano e giocano all’interno dell’Università. La cosa è bellissima, poi quando arrivi già in A2 e difficile far correre questi ragazzi contro i professionisti veri”.
Su Cantù: “Purtroppo questi due anni non è riuscita a risalire, speriamo ci riesca in questa stagione. Cantù è tradizione, è scuola di basket, è amore per questo sport. E’ andata in A2 però la passione dei canturini resta accesa, una squadra che è stata campione d’Europa, ha un curriculum incredibile. Speri che torni presto in serie A”.
Su Pesaro e Fortitudo Bologna, due squadre che nella sua carriera ha anche allenato: “Pesaro è un esempio di squadre, che finchè c’era un mecenate come Scavolini era ad alto livello, poi il livello è precipitato. Stessa sorte poi capitata a Treviso, che dopo l’addio di Benetton è ripartita dal basso ed ora è in serie A ma con una nuova proprietà. Cantù resiste con le sue forze e deve cercare con le sue forze di venire in serie A. La Fortitudo Bologna ha un valore sociale molto pronunciato, rappresenta caratura popolare ed alla mano. Anch’essa ha avuto i suoi sponsor che l’hanno portata ai vertici. Sta lottando per tornare in serie A e spero che lo faccia, ha un ottimo allenatore”.
Sul cammino in Italia ed Europa di Virtus Bologna e Milano La Virtus Bologna sta dominando sia nelle coppe che in campionato ed è una realta ben inserite tra le migliori squadre europee. Milano invece ha speso molto, però si è trovato o per infortunio o per difetto di quadratura una squadra difficile da gestire, che ha avuto bisogno di più tempo delle altre squadre di sistemarsi. Purtroppo il campionato di serie A è funestato dalla mania di cambiare giocatori ogni anno, quest’anno l’Olimpia ne ha cambiati sette-otto. Non puoi avere continuità didattica in questo modo, la tecnica scade molto e questo succede anche per tutte le squadre, il risultato è che tutte giocano allo stesso modo, tutte con grande spreco di tiro tre, con velocità continua senza riflettere e senza guardare la strategia del gioco”.
Valerio Laurenti