di Luigi Ercolani

 

Al primo impatto Ivan Belletti è esattamente come le cronache descrivono quel Benedetto XIV a cui è dedicata la squadra di Cento: franco, intuitivo, eccellente comunicatore. Qualità certamente propedeutiche per svolgere un ruolo, quello del general manager, assai delicato, specie se in un contesto semiprofessionistico come quello della A2 di basket.

Con il dirigente bianco-rosso abbiamo toccato diversi temi, dalla stagione della sua squadra fino alle caratteristiche della mansione che svolge.

 

 

L’anno scorso Cento sesta in stagione regolare e primo turno playoff. Quest’anno invece la Tramec è arrivata addirittura seconda nel girone: com’è nato il miglioramento?

 

Da quando siamo arrivati in A2 tre anni abbiamo sempre cercato, compatibilmente con i contratti in essere e la disponibilità di budget, di portare un mattoncino in più laddove io, e soprattutto coach Mecacci, pensavamo ci fossero delle lacune dal punto di vista tecnico. Fondamentalmente siamo partiti con un gruppo molto solido, che era quello che ci aveva aiutato ad essere primi in Serie B prima della stagione interrotta, dopodiché abbiamo aggiunto sempre un giocatore italiano per migliorare il roster: l’esempio più eclatante è quello di Tomassini l’anno scorso, che è un giocatore di grande caratura in A2.

Questa strategia ci ha permesso ogni anno di fare un passo in più, e soprattutto a migliorare l’aspetto offensivo, dove avevamo bisogno di mettere dentro delle armi in più, mentre come sistema difensivo il nostro è sempre stato molto marcato. È stata una crescita costante, dalla salvezza tranquilla del primo anno al sesto posto dell’anno scorso, fino al secondo di questa stagione.

 

Quali sono i valori della Benedetto XIV?

 

Anzitutto il gruppo e la serietà del gruppo. Abbiamo sempre cercato di mettere insieme una squadra che fosse composta da ragazzi con valori umani importanti: le squadre si costruiscono in prima battuta con le persone, per questo abbiamo sempre cercato ragazzi disponibili che capissero la piazza e lo staff.

Poi secondariamente c’è anche un discorso legato allo riuscire a stare in palestra, di predisposizione al sacrificio, capendo che la stagione è una somma di esperienze, sia positive che negative, per arrivare poi a raggiungere i traguardi che si sono fissati nel corso dell’anno. Inoltre abbiamo sempre mostrato disponibilità al dialogo, alla comunicazione, cercando così anche di togliere possibili alibi ai giocatori.

 

A livello societario quali strategie vi guidano?

 

Da un punto di vista prettamente concreto, sicuramente avere la possibilità di un budget definito il prima possibile sia per i giocatori che per lo staff, per poi costruire una struttura di club ben precisa, subito, a volte anche preferendo avere in più un componente societario piuttosto che un giocatore.

È inoltre cruciale non fare il passo più lungo della gamba, avendo sempre l’obiettivo ben chiaro, senza farsi trascinare né dall’entusiasmo in caso di risultati positivi, né dall’ansia in caso di strisce negative.

 

Qual è il vostro rapporto con il territorio?

 

È ottimo. Cento è una città che vive di passione cestistica, quindi è un territorio con cui è un piacere relazionarsi. Ad ogni nuovo innesto, giocatore o staff, dico sempre che non si può prescindere da un rapporto con la piazza.

Si vive in simbiosi, anche con una tifoseria che, a parte quelle più famose, è tra le più calde di A2, e questo si vede anche in trasferta, quando abbiamo almeno una cinquantina di tifosi al seguito, anche nei posti più disparati.

 

Quali sono i criteri con cui selezionate i giocatori?

 

Innanzitutto è fondamentale avere un rapporto, una sinergia e una costante comunicazione con lo staff tecnico. Io ho delle idee di preciso, delle preferenze, in merito ai giocatori che mi piacciono, ma poi li allena il coach.

Una volta individuato il sistema dell’allenatore, e una volta parlato di questo, viene poi più facile scegliere i giocatori. E in quattro anni non abbiamo praticamente mai avuto delle divergenze d’opinione.

In generale, comunque, gli atleti vanno scelti o dal punto di vista della professionalità, dello human being, o dal punto di vista della tecnica, e di quanto essa può essere funzionale alla tattica dello staff.

 

Che campionato di A2 è stato, finora? E la Benedetto XIV che prospettive ha?

 

È stato un campionato che ho vissuto come particolarmente lungo, dispendioso. Ci sono state tappe in cui abbiamo avuto l’occasione di crescere, e di capire quanto potessimo migliorare.

In generale è stato un po’ strano, perché alcune forze si sono ribaltate, e noi siamo stati protagonisti di questo ribaltamento, visto che obiettivamente, senza falsa modestia, potevamo essere tra le prime quattro-cinque, ma non pensavamo assolutamente secondi. Alcuni valori si sono confermati, come Forlì o Pistoia che sono piazze sempre solide, mentre altre hanno fatto più fatica.

Magari nel nostro girone, il Rosso, non c’erano tutte le big del girone Verde, ma d’altra parte c’era molto equilibrio, quindi potevi perdere contro chiunque e vincere contro chiunque. I playoff ora sono un altro campionato, in cui non mi sembra ci sia un’evidente favorita per salire, anche se Cantù con Logan ha dato un segnale sulle sue ambizioni.

Ci sono stati, nel complesso, molti movimenti di mercato, per cui sicuramente vedremo dei playoff che sono equilibrati in quasi tutte le serie sin dal primo turno.

 

Com’è fare il general manager nel basket italiano?

 

La maggiore difficoltà è far contenti tutti, che è impossibile. Ma ciò che è importante in un ambiente un po’ ibrido come questo, in cui girano relativamente pochi soldi, è sicuramente la più aperta, sincera e soprattutto continua comunicazione tra dirigenza, staff e giocatori.

Durante l’anno bisogna individuare i momenti giusti per parlare individualmente, e coinvolgere la proprietà, a cui vanno spiegati i momenti brutti, non lasciandosi invece trascinare dall’entusiasmo dei momenti belli, che potrebbero sviare. Occorre saper affrontare le avversità, parlare e condividere le esperienze in modo tale da poter superare le difficoltà insieme, senza lasciare nessuno indietro.

La parte più bella, più stimolante, è invece all’inizio dell’anno con la scelta dei giocatori e i colloqui quotidiani con l’allenatore. Anche se è anche più dispendiosa dal punto di vista del tempo e delle energie.

 

Quali potrebbero essere, ipoteticamente, le sfide di un general manager in Serie A?

 

Chiaramente non l’ho mai fatta, ma guardando da fuori mi viene da dire che cambino anzitutto i rapporti tra americani ed italiani, con questi ultimi che passano da 80% a 50% almeno. Dal punto di vista umano devi riuscire comunque a dare questo vantaggio di parlare con i giocatori, anche se nella creazione della squadra ci sono molte più incognite.

Ad esempio devi essere molto bravo ad avere i network giusti per capire com’è un americano a livello caratteriale. Poi certamente c’è anche il livello economico, con il discorso del professionismo legato alla tassazione: viene sicuramente richiesto uno sforzo in più, uno studio in più, per riuscire a far quadrare i conti.