Nella storia della pallacanestro ci sono squadre che hanno iniziato a vincere e non si sono più fermate per un discreto numero di anni, altre che hanno fatto irruzione nell’Albo d’oro con cadenze irregolari e altre ancora che hanno gioito in una sola occasione.
Poi c’è stata anche la Virtus Roma. Club che purtroppo ha smesso di esistere da qualche settimana ma che nei 100 di vita della pallacanestro italiana rappresenta un caso unico. Unico, non raro.
Provateci voi a non vincere nulla nei primi 23 anni di vita e poi, nel giro di 522 giorni, a mettere insieme Scudetto, Coppa dei Campioni e Intercontinentale. Per poi tornare a secco di vittorie nei successivi 36 anni, con l’eccezione di due Korac e una Supercoppa italiana.
A cavallo tra aprile 1983 e settembre 1984 il Bancoroma visse 18 mesi irresistibili. Iniziando la stagione davanti ai 1.500 coraggiosi del Palatiziano per chiuderla al cospetto di 15.000 tifosi impazziti al Palaeur. E altrettanti ne rimasero fuori.
Il Banco di Valerio Bianchini e Larry Wright a braccetto con la Roma di Nils Liedholm e Paulo Roberto Falcao, Roma al centro esatto dello sport italiano come mai prima fino a quel momento.
Pur avendo sorprendentemente chiuso in testa la stagione regolare, nel 1983 la Virtus non era granché considerata dagli addetti ai lavori: quando Cantù passò a Roma in gara1 di semifinale scudetto, la trama sembrava apparecchiata per l’ennesima finale tutta lombarda tra i brianzoli e il Billy Milano. Il gioco si era fatto serio, i duri avevano evidentemente cominciato a giocare.
Qualche giorno più tardi, invece, il Banco ribaltò il mondo passando al Pianella e spianandosi la strada verso la finale prima e verso lo scudetto poi, vinto il 19 aprile contro l’Olimpia di Dan Peterson, Mike D’Antoni e Dino Meneghin. “Siamo apparsi allo scudetto”, aveva dichiarato coach Bianchini dopo il colpo di Cantù e il Vate, pure se le sue parole avevano destato scalpore, non aveva torto.
Quella squadra sembrava predestinata, spinta da un flusso magico che si palesò nuovamente il 29 marzo 1984 a Ginevra, in occasione della finale di Coppa Campioni. Banco messo pesantemente sotto dal Barcellona fino a metà secondo tempo, con tutti gli italiani più importanti (Gilardi, Solfrini, Polesello, Sbarra) sottotono e carichi di falli prima del lieto fine propiziato dal folletto nero piovuto dalla Louisiana, come neanche in una pellicola americana di metà anni ’80.
Ginevra invasa da tifosi capitolini, il basket a occupare parte delle chiacchiere da bar delle periferie romane, normalmente monopolizzate dal dio pallone. Pochi mesi più tardi, quasi per inerzia, dal Brasile il Bancoroma tornò col titolo di campione del mondo, trionfando con una squadra profondamente rinnovata nell’organico e che tra gli altri aveva salutato Larry Wright.
Niente male per una società fondata alla fine degli anni 1950, in una palestra a poche centinaia di metri da piazza San Pietro, in seguito alla fusione di due squadre di Serie C, il San Saba e il Gruppo Borgo Cavalleggeri, prendendo inizialmente il nome di Virtus Aurelia.
Roma fu capace di scalare in pochi mesi Italia, Europa e mondo. In precedenza, c’era riuscita solo qualche migliaio di anni prima.
Inevitabili, poi, le vertigini.
Ma i 522 giorni di quel Bancoroma non potranno mai essere dimenticati.
Fonte: fip.it