PARIGI. Le lacrime di Victor Wembenyama consolato da Kevin Durant e la gioia sfrenata di Steph Curry (insieme a Lessort avvolto in una bandiera palestinese sul palco della premiazione: cosa dice il CIO che ha squalificato una B-girl afgana della squadra dei rifugiati per un messaggio a favore delle donne di Kabul?) sono le immagini emblematiche di una finale olimpica che ha confermato la superiorità degli Usa, giunta all’oro per la settima volta nelle ultime otto edizioni dei Giochi e cioè da quando in campo scende la Nba, ma non più schiacciante come era stata a Barcellona e Atlanta, ed anche a Rio de Janeiro nel 2016 quando la Serbia fu travolta con un trentello di scarto (66-96).
È la terza volta in questo secolo che la Francia sfida gli Usa in finale, uscendone sconfitta ma con l’onore delle armi, facendo cioè una gran bella figura, La fece a Sydney (75-85), si ripetè a Tokyo (82-87), ieri forse ha insidiato ancora di più il potere americano, già intaccato dalla fatica consumata per prevalere sulla Serbia in semifinale, anche se alla fine il riscontro numerico è stato più penalizzante: 98-87.
Tutto merito di Steph “Chef” Curry e di quei due minuti conclusivi quando ha dimostrato al pubblico di Bercy e al miliardo abbondante di persone che hanno assistito in tv alla finale del basket – l’evento più atteso dei Giochi insieme alle gare di atletica – perché sta scrivendo la storia come miglior tiratore di sempre: quattro triple consecutive in pochi secondi, con leggerezza, con fluidità di movimenti, liberandosi dalla marcatura, cercando gli spazi giusti per sfiorare appena la retina. Uno, due, tre, quattro: gli Usa in difficoltà, impaniati nella viscosa difesa francese (17 palle perse), hanno cercato per salvarsi l’uomo dei miracoli che già in semifinale con i suoi 36 punti li aveva tirati fuori dai guai.
Il titolo di Mvp è andato a LeBron James, il “caron dimonio dagli occhi di bragia” di dantesca memoria, barbone folto che comincia ad imbiancarsi, a presidiare il fortino americano e a dardeggiare con lo sguardo – ben messo in rilievo dai primi piani televisivi – compagni ed avversari.
Noblesse oblige, e LeBron è stato sicuramente il migliore dei suoi nell’arco del torneo ed il titolo va normalmente a chi vince, ma a svettare in finale, e non soltanto per centimetri, è stato il piccolo Victor. Piccolo per età s’intende, vent’anni compiuti il 4 gennaio, il più giovane in campo, alla prima esperienza di rilievo assoluto e a due passi da casa ha giocato la finale con l’autorevolezza di un veterano: 26 punti, 7 rimbalzi, 2 assist e nel finale le due triple che hanno consentito alla Francia di restare aggrappata il più possibile alla partita rispondendo a Steph Curry.
Wembenyama ha imparato a San Antonio a conoscere e a non temere i suoi avversari in una intera stagione da rookie of year. Ieri ha dimostrato definitivamente che, con i suoi 2,24, non è un fenomeno da baraccone, ma un giocatore destinato ad entrare nella storia della Nba e del basket mondiale.
Tra James, Curry, Durant e Booker, ci saremmo aspettati una squadra destinata a soffrire molto di meno. Invece gli Usa sono stati messi pesantemente alla corda prima dalla Serbia e poi dalla Francia, uscendone per la qualità individuale dei suoi campioni. Troppa fiducia nelle possibilità di ciascuno, insofferenza agli schemi, scarsa disponibilità ad un gioco più corale, sta di fatto che con le potenzialità fisiche e tecniche che aveva a disposizione, Steve Kerr avrebbe potuto e dovuto fare di più e meglio. Ma ha portato a casa l’oro, che è il quarto consecutivo per Kevin Durant, il terzo per LeBron che unisce anche il bronzo di Atene, solo il primo per Steph Curry.
Quarta medaglia d’argento olimpica per la Francia (la prima nel 1948, a Londra) che ha avuto in Yabusele, Batum e Cordinier gli uomini chiave nelle fasi iniziali, trovando poi ieri, oltre a Wembenyama, un De Colo agli sgoccioli della carriera ma tra i migliori e determinanti in quella che probabilmente è stata l’ultima sua partita con la maglia dei Bleus.
Tutto come nelle previsioni, in fondo anche il bronzo della Serbia che si è “vendicata” della Germania. Tra i tedeschi la delusione per essere arrivata solo a un soffio dal completare il tris di podi che cercava: in tre anni il bronzo europeo, l’oro mondiale, ma solo il quarto posto olimpico.
A proposito del quale è giusto virare il discorso sull’Italia che di quarti posti in questa Olimpiade ne ha ottenuti per 25. A fianco delle 40 medaglie già vinte, che pareggiano il conto di Tokyo, ma finora con un oro e tre argenti in più (e vedremo di che colore sarà la medaglia delle azzurre del volley, in finale con gli Usa dalle 13) e cinque in meno di bronzo. Ieri il terzo posto delle farfalle di Emma Maccarani nella ginnastica ritmica e del pentatleta Giorgio Malan, e l’argento della coppia Elia Viviani e Simone Consonni nella prova di madison, avevano irrobustito ulteriormente il medagliere azzurro.
I 25 quarti posti, primato tutto italiano qui a Parigi, ultimo quelle di Sottile nel salto in alto, in cui abbiamo vissuto il dramma di Gimbo Tamberi, da un lato lasciano l’amaro in bocca, dall’altro confermano il buono stato di salute del nostro sport. Sfiorato il limite dei 45 podi ipotizzato dal Coni, ma confermata la competitività del nostro sistema soprattutto perché le medaglie sono venute da 15 discipline diverse.
Stasera, alle 21, ci congederemo dalla 33ª edizione dei Giochi Olimpici estivi che Parigi ha ospitato con grande e forse eccessiva generosità. Che ha portato nelle piazze e nelle strade, nei suoi luoghi cult, che è stata in grado di imporre con i risultati esaltanti dei suoi atleti (anche se hanno mancato l’obiettivo delle 75 medaglie, hanno pur sempre quasi raddoppiato i numeri di Tokyo) attenzione, passione, fervore, sostegno, facendo dimenticare una città blindata, le stazioni del metrò chiuse, i pattugliamenti costanti delle forse di polizia, la limitazione degli spostamenti in una città “libera” per definizione. Due ore e mezza di cerimonia, perché, nelle intenzioni di Jolly, il regista, l’Olimpiade rimanga nel ricordo anche se si conclude. Tanta musica, tanta acrobazia, tanta leggerezza in un messaggio in cui non mancheranno punte di provocazione. Sicuramente tanto spettacolo nel passare il testimone a Los Angeles, dove nel nome dello sport il mondo si ritroverà tra quattro anni, sperando più pacifico, solidale, inclusivo.
Nell’immagine Victor Wembanyama, foto FIBA
Mario Arceri