PARIGI. Un solo punto, nel suo piccolo si intende, può fare la storia. Soprattutto nello sport dove, ieri a Parigi, la vittoria degli Usa sulla Francia nella finale di basket femminile che ha chiuso la trentatreesima edizione dei Giochi Olimpici, ha assegnato l’ottavo oro consecutivo alle americane, il sesto personale a Diana Taurasi (da Atene 2004 a Parigi 2024, vent’anni di trionfi e di imbattibilità olimpica per la quarantaduenne di origini italiane cresciuta nella University of Connecticut alla scuola del mitico Geno Auriemma, lui sì nato a Montella e poi emigrato negli Usa), il primato per il “Team Usa” nel medagliere olimpico raggiungendo proprio sul filo di lana a quota 40 ori la Cina, ma prevalendo per il numero di argenti: 44 contro 27.
Eppure la Francia aveva la partita in pugno grazie soprattutto ad una grande difesa finché A’ja Wilson non è salita in cattedra e, con 21 punti e 13 rimbalzi, non ha rintuzzato insieme a Breanna Stewart l’assalto che le triple impossibili della Fauthoux e i punti di Dabby Williams (nata a New York da mamma francese) stavano concretizzando.
Doppio successo degli Usa, come era prevedibile, ma onore delle armi più che meritato per la Francia che è andata vicinissima con gli uomini e ancora più con le donne ad un successo che avrebbe rivoluzionato gli equilibri (e l’idea di equilibrio) del basket che verrà.
Quello dei Giochi di Parigi, intanto, fa gongolare la Fiba: con 1.078.319 spettatori paganti, questa è stata un’edizione da record, tanto più se si tiene conto che il numero complessivo di biglietti venduti è stato di nove milioni e mezzo, per metà a francesi e per l’altra metà a stranieri che hanno alimentato il turismo nella Ville Lumiere.
Il basket viene dopo calcio e atletica che hanno ovviamente goduto di impianti ben più capienti. Si è però confermato anche qui a Parigi la disciplina più attrattiva, e il cammino delle nazionali francesi, così come il 3×3 nella splendida cornice di Place de la Concorde, gli ha dato una grossa mano a riportare un successo di interesse sempre crescente.
Un punto, in realtà una medaglia, sigla il successo dell’Italia che chiude con 40 podi, eguagliando il record di Tokyo ma con due ori e tre argenti in più rispetto a tre anni fa. Quel “punto” in più, e cioè l’oro conquistato in maniera travolgente dalle ragazze del volley contro gli Stati Uniti con il contributo determinante di Paola Egonu, ci ha consegnato il nono posto nel medagliere (settimo per numero di podi) lasciandoci alle spalle la Germania, il che è sempre una bella soddisfazione per la tradizionale competitività sportiva dei tedeschi. Un altro oro in più, quello rubato a Macchi, ci avrebbe portato a scavalcare la Corea del Sud.
Comunque un’Olimpiade che, dopo un inizio terribile in cui sono venuti meno alcuni capisaldi della spedizione italiana, ha regalato ampie soddisfazioni allo sport italiano: nella valutazione non si possono dimenticare i 25 quarti posti che non vanno definiti come medaglie di legno, ma come ulteriore dimostrazione della qualità (riconosciuta da Mattarella che riceverà anche loro al Quirinale nella consueta cerimonia di restituzione della bandiera) del nostro sistema su cui, non a caso, la politica sta ora cercando di allungare le mani, a volte in maniera maldestra come nel caso della pugile algerina, Imane Khelif, diventata, grazie agli scomposti attacchi di cui è stata vittima (perfino da Trump…) e che ne ha denunciato il bullismo anche digitale alla magistratura francese una star mondiale.
L’Olimpiade si è chiusa ieri con una cerimonia tradizionale, lontana dalle fantasie e dalle provocazioni dell’apertura. Nello Stade de France di St. Denis il cavaliere d’argento che volava sulla Senna si è trasformato nell’uomo d’oro che scende dal cielo per raccogliere da Atena il testimone dei Giochi dell’antichità in un quadro interpretato da un centinaio di danzatori che a loro volya innalzano verso il cielo i cinque cerchi olimpici da una piattaforma in cui stilizzati vengono proposti i cinque continenti. Il tenore Benjamin Bernheim ha rispolverato l’Inno ad Apollo, una partitura del secondo secolo avanti Cristo, scoperta a Delfi nel 1893 e fatta riadattare da de Coubertin per i primi Giochi dell’era moderna ad Atene tre anni più tardi. La musica ha avuto il ruolo centrale, con i gruppi electro pop Air e Phoenix, e con Zaho de Sagazan, Angele e Yseult a proporre le tendenze francesi che stanno facendo scuola.
Il passaggio di consegne con Los Angeles l’ha firmato Tom Cruise sulle note di Mission Impossible lasciando in moto lo Stade de France, imbarcandosi in aereo e paracadutandosi su Hollywood. Il passaggio dalla solenne ed elegante fantasia della chiusura, e ancor prima dal pazzo, discutibile ma avvincente, originale e spettacolare poutpurri dell’apertura, provocante e provocatorio nella lettura e nella presentazione della storia di Parigi e della liquida realtà sociale di oggi, alla normalità balneare delle spiagge californiane è stato fragoroso e disarmante.
Cosa resta dei Giochi di Parigi? Se lo chiedono soprattutto i francesi. “Garder la flamme” (tutelare la fiamma olimpica con i suoi valori) titola L’Equipe. “Difficile de dire au revoir” scrive Le Parisien, che apre con un. grande “Merci” in copertina, interpretando il pensiero e il sentimento di tuti: atleti, spettatori, cittadini il giorno dopo la conclusione del più grande spettacolo sportivo del mondo.
“Et maintenant?” si chiede Le Figaro ricordando la vecchia bellissima canzone di Gilbert Becaud ma soprattutto che, dopo la parentesi incantata dei Giochi, si dovrà affrontare la realtà anche e soprattutto politica di una Francia che ha congelato la sua crisi ma dovrà ora risolverla, e di un mondo sull’orlo del precipizio in Europa e in Medio Oriente.
Cosa salvare dei Giochi? Lo sport, innanzi tutto. Non la testarda volontà di usare la Senna inquinata come campo di gara: si parla di un miliardo e mezzo di euro spesi per (non) depurare le sue acque che resteranno di sicuro non balneabili in futuro. Né le ostinate passerelle dei politici, francesi e non, e i loro interventi il più delle volte a sproposito.
Da salvare e ricordare sono la sesta medaglia d’oro consecutiva di Diana Taurasi (che dice: “Siamo invincibili perché siamo nate con il pallone di basket in mano”), la quinta del lottatore cubano Mijain Lopez il “Terribile”, oppure la neozelandese Lisa Carrington che in kayak ne ha vinte sette ma in “sole” quattro Olimpiadi. Queste passeranno alla storia sportiva come le Olimpiadi di Leon Marchand, quattro titoli individuali nel nuoto, come Spitz, Phelps o Thorpe (che però ne vinsero altre con le staffette). E’ stato lui a spegnere la fiamma olimpica alle Tuileries salvandola nella piccola lanterna che idealmente tornerà sotto il Monte Olimpo.
E dell’Italia? I nostri atleti erano 403, le 40 medaglie ne hanno premiato una settantina, tenendo conto delle squadre; nelle finali – e cioè tra i primi otto, l’eccellenza nello sport – sono entrati un’altra trentina di atleti. Molto buono quindi il risultato collettivo, eccezionale quello della ginnastica femminile per la prima volta sul podio con l’argento della squadra di artistica, con lo storico oro di Alice D’Amato alla trave (insieme al bronzo di Manila Esposito) e con il bronzo di Sofia Raffaeli nella ritmica, oltre a quello della squadra. Tante prime volte che confermano la crescita di una delle discipline più importanti del programma olimpico. Ed eccezionale anche l’oro della Nazionale femminile di volley: ci voleva una nuova magia di Julio Velasco, il padre della pallavolo italiana, per sfatare un tabù.
Queste ragazze (il contributo femminile è stato di 15 medaglie, coinvolgendo 44 donne) rappresentano simbolicamente l’intera squadra azzurra: ci hanno fatto sognare, hanno lanciato la corsa verso Los Angeles. Non fermiamole.
Nell’immagine la cerimonia di chiusura, foto X
Mario Arceri