PARIGI. “Mi renderò conto che non è un sogno solo quando ascolterò la Marsigliese” diceva Victor Wembanyama nei giorni scorsi a chi gli chiedeva che sensazione provasse a poche ore dall’esordio in un’Olimpiade e a due passi da casa (in realtà a Lille, sperando di rivedere parenti e amici a Bercy tra una settimana). In realtà gli è servito qualche minuto in più. Non troppi, appena il quarto iniziale della gara d’esordio con il Brasile prima di lasciarsi alle spalle l’emozione e trasformarsi nel “mostro” che nella Nba hanno imparato a conoscere fin dalle prime battute.

Il Brasile di Aza Petrovic è stato a lungo avanti, anche di dodici lunghezze facendo correre qualche brivido lungo la schiena di Collet dopo gli ultimi quattro ko consecutivi in preparazione ai Giochi, poi il gigantesco ventenne di Le Chesnay, cresciuto a Nanterre, si è scrollato di dosso timori a avversari e ha iniziato il suo recital: in 31 minuti (ma sarebbero da togliere i primi dieci, nei quali ha preso la misura del Brasile e del clima olimpico), 19 punti, 9 rimbalzi, tre stoppate e quattro recuperi per il 78-66 finale, dando fiducia ad una Francia sorpresa dall’avvio di Marcelino Huertas e soci e in difficoltà nel trovare soluzioni efficaci in attacco.

Insomma, già al primo assaggio con l’evento più importante finora della sua giovanissima carriera, “Wemby” ha subito dimostrato in primo luogo di essere una pedina insostituibile per la Francia se vorrà coltivare ambizioni di podio, in secondo luogo – acquisendo sempre più fiducia nei suoi straordinari mezzi – di avere la possibilità di lasciare un’impronta indelebile sul torneo olimpico, divenendone, come BM e tanti altri opinionisti hanno ipotizzato, il personaggio emblematico.

Difficile che la lasci, invece e una volta di più dopo il flop di Tokyo 2020, la Spagna di Scariolo, battuta senza attenuanti dall’Australia nonostante i 27 punti di Aldama, in sostanza l’unico iberico ad aver reagito con profitto, almeno personale, in una gara messa subito in salita dalle crepe difensive: 31 punti al passivo nel solo quarto iniziale, poi sostanziale equilibrio senza più riuscire a ricucire il passivo. In un girone di ferro, con il Canada che affronterà venerdì prossimo, dovrà cercare di battere la Grecia martedì, secondo incontro del girone ma già decisivo, mentre Australia e Canada si giocheranno il primo posto.

Detto della Germania che non ha avuto difficoltà a schienare il Giappone, domani il torneo prende quota, con quella che potrebbe già essere una finale: USA contro Serbia, Steve Kerr contro le magie di Sveto Pesic, il pluridecorato Jokic contro i suoi celebrati compagni impegnati a dimostrare – più che confermare – di essere il Dream Team del ventunesimo secolo. Durant ancora giù di forma e acciaccato, ma non sono certo i sostituti di gran nome a far difetto allo squadrone Usa che mai come stavolta è seriamente insidiato da più parti nella corsa all’oro: Germania, Francia, Canada, Australia. Intanto prenderà le misure della Serbia, già maltrattata in amichevole a Dubai, ma si sa che senza i due punti in palio il risultato vale ben poco.

L’argento nel ciclismo di Ganna e il bronzo di Samele nella sciabola e della 4×100 stile libero maschile hanno illuminato per gli azzurri questa giornata iniziale dalla quale ci si attendeva qualcosa di più. Ma il mondo va cambiando, ed anche lo sport si globalizza rendendo più difficile la conferma di certi valori che si pensavano consolidati: si pensi alla scherma, un tempo patrimonio esclusivo di quattro o cinque Paesi, in cui nelle semifinali delle prime due armi oggi in pedana si sono presentati atleti di ben otto nazionalità diverse: oltre a Italia, Francia e Ungheria, una estone, una ragazza di Hong Kong, un tunisino, un coreano, un egiziano.

Tanta diversità, tanta trasformazione sociale e civile che nell’apertura dei Giochi, ieri, si è cercato di evidenziare, probabilmente accentuando un po’ troppo toni e tinte. S’è discusso e tanto, c’è stata molta indignazione nella parte di classi sociali e politiche più, diciamo così, conservatrici. Parigi ha impostato il suo “manifesto”, in dodici quadri stupendi per intensità colori e messaggio, sui suoi tre canoni repubblicani: libertà, uguaglianza, fraternità, unendone altri forse più moderni ma altrettanto validi: solidarietà, integrazione, sportività. Senza preclusioni ideologiche, di genere, di convenienza.

Sicuramente esagerando nella rappresentazione laica e trasgender del Cenacolo perché non è offendendo la sensibilità dei più che si affermano i propri diritti, ma – come peraltro si è fatto – inviando, in ogni dettaglio del lunghissimo spettacolo che ha accompagnato la navigazione sulla Senna, da Austerlitz al Trocadero. delle 205 rappresentative nazionali, un messaggio costante di amore e di pace, quella che né Putin né Nethaniau o Hamas, hanno solo immaginato di realizzare rispettando uno dei basilari ideali olimpici: la sospensione di ogni guerra.

Amore e pace invocati con le note di Imagine cantata da Juliette Armanette su una zattera in balia della corrente, e quelle conclusive di Celine Dion che è tornata a cantare l’Hymne a l’amour, la struggente canzone scritta da Edith Piaf nel 1948 quasi presagendo la fine tragica, di lì a un solo mese nell’incidente aereo alle Azzorre, di Marcel Cerdan, il grande pugile francese suo compagno di vita.

Ascoltando i Gojira, il complesso metal rock che ha dato vita ad un Ah! Ca ira “tout feu tout flamme” dalle finestre della Concergerie, presa d’assalto e data alle fiamme come ai tempi della Rivoluzione dai cittadini, con tanto di una Maria Antonietta decapitata. Oppure la Marsigliese intonata da Axelle Saint-Cirel, una mezzosoprano nata in Francia da genitori della Guadalupa, scandalizzando la destra francese più retriva per il colore un po’ più scuro della sua pelle.

Integrazione, solidarietà, tolleranza, comprensione, parità di genere, liberazione da ogni pregiudizio, amore come quello dei tre ragazzi che si incontrano in biblioteca, o il bacio incorniciato dal cuore rosso disegnato dagli aerei della pattuglia acrobatica. E, soprattutto, un grande omaggio alle donne attraverso i busti che emergono dalla Senna per ricordare otto grandi personaggi femminili, l’ultima è Simone Veil, sopravvissuta ai campi di concentramento nazisti ed europeista tra le più illuminate.

Forse troppi i contenuti e troppo importanti, pur simboleggiando quello che è stata Parigi (la madre delle libertà e delle democrazie di oggi) e quello che vuole tornare ad essere, ma ogni cerimonia d’apertura è stata occasione di narrazione della storia e dell’orgoglio della città ospitante: in questo caso un teatro naturale così importante, famoso, unico da diventare un gigantesco palcoscenico in cui si sono ripetute soluzioni, colori, sorprendenti fantasie. A danno, è vero, degli atleti che dovrebbero essere i protagonisti di ogni apertura dei Giochi e che sono invece stati ridotti al ruolo di comparse, tra l’altro bagnate dalla pioggia battente (come gli ospiti d’onore e i capi di Stato presenti in una tribuna senza coperture al Trocadero).

Dopo lo spettacolo, la realtà che parla di atleti in fuga dal Villaggio dove si mangia poco e male, di atleti borseggiati, di difficoltà di circolazione in città, di traffico ferroviario che sta lentamente tornando alla normalità. Finito il sogno, ora contano solo le medaglie.

 

 

 

Nell’immagine Victor Wembanyama, foto FIBA

Mario Arceri