Pierluigi Marzorati, pilastro della pallacanestro italiana e bandiera della Pallacanestro Cantù negli anni 70 e 80, è stato intervistato da Stefano Boldrini su Il Messaggero ed Edoardo Ceriani su La Provincia in occasione del suo 70esimo compleanno: “Direi un bel traguardo. Con la consapevolezza, da giocatore, di aver vissuto momenti, con il club e la Nazionale, che mi hanno portato sempre in dote compagni di squadra bravi e importanti. È stata una fortuna”.

Da dove nacque in lui la passione per la pallacanestro: “Ero un frequentatore di oratori. Lo sport mi piaceva: corsa campestre, calcio, pallacanestro. A 12 anni feci un provino e mi presero, a quel punto virai sul basket”.

Marzorati si è poi anche laureato in ingegneria civile: “Vero. Ritengo strategica, oltrechè vincente, la scelta di aver attivato gioco e studi all’università. Una situazione che mi è servita a mitigare il momento dell’abbandono dell’attività di giocatore prima e dirigente poi, trovando grandi soddisfazioni anche nel lavoro”.

Adesso è anche il capo della LIBA (acronimo di Legends International Basketball Association): “L’intento era quello, una svolta smesso di giocare, di mettere in piedi qualcosa di importante per i giovani e per i valori che lo sport a noi ha insegnato. Punto focale, ovviamente, è che siano i club che continuino a investire, così come sta accadendo. Ma certi concetti di sacrificio e lavoro può trasmetterli con serenità e tranquillità pure chi ha deciso di fare del volontariato come noi”. E l’associazione si è già mossa a dovere: “Le ultime due iniziative, ad esempio, la consegna a Milano di due panchine dedicata a Sandro Gamba e Bogdan Tanjevic, i due coach campioni d’Europa con la Nazionale, e la prossima che faremo a Brescia, nell’ambito della Supercoppa italiana, in memoria di Marco Solfrini e Riccardo Sales. Tutti nostri punti di riferimento, non possiamo dimenticare la storia”.

A proposito di leggende di questo sport, anche Marzorati fa parte di questa elite (277 presenze e 2.222 punti in Nazionale e ben 8.659 punti in 693 con la Pallacanestro Cantù dal 1970 al 1991): “Non vorrei passare per falso modesto, ma c’ero anch’io in mezzo a tanti altri quando si è vinto con la Nazionale e con Cantù. Ho approfittato di quel mix di professionalità, competenza e fortuna che sta alla base di un successo”.

Nella sua carriera ha sempre utilizzato il numero 14: “Non ho scopiazzato Cruijff, che pure da appassionato di calcio ho ammirato. È stato un omaggio a Carlos D’Aquila, componente di quella straordinaria squadra che nel 1968 conquistò il primo scudetto di Cantù. Carlos ci ha lasciati nel 2017”.

Il playmaker classe 1952 è stato una bandiera come poche altre ce ne sono oggi: “Una scelta di vita, soprattutto. Ricordo che quando andai a giocare le amichevoli in America prima delle Olimpiadi del 1972 furono diverse le Università degli States che mi cercarono. Ma mia madre mi disse: “Non se ne parla nemmeno, prima finisci il Politecnico e poi puoi scegliere quello che fai”. Ovvio che a 26 anni le cose presero un’altra piega. E poi fortunatamente a Cantù arrivò un certo signor Valerio Bianchini, che cambiò i destini sportivi miei e della società. E poi mi sposai, mettendo su casa. Giocavo e pensavo al dopo carriera lavorando. Cambiarono gli interessi e le prospettive”.

Infine il successo a cui è più affezionato: “Alla prima Coppa dei Campioni con Cantù a Colonia contro il Maccabi e alla medaglia d’oro agli Europei di Nantes dell’83”. E la più grande delusione? “Tante, forse anche di più delle vittorie. Ogni eliminazione dalla corsa scudetto, ad esempio. O la sconfitta in Nazionale contro la Jugoslavia alle Olimpiadi di Montreal 76. Vincevamo di 15/20 punti e non ce l’abbiamo fatta, non riuscendo a raggiungere la semifinale, che con certezza quasi assoluta avrebbe portato una medaglia”.

Fonte: legabasket.it