26 gennaio 2020.
Francesco Repice sta presentando la supersfida dello stadio San Paolo tra Napoli e Juventus ai microfoni di Radio 1, chi vi scrive era al PC e stava lavorando su un articolo mentre ascoltava il calcio nella bella maniera di un tempo.
Ad un certo punto intervengono dallo studio, “Francesco Repice, perdonami perchè devo dare una notizia che purtroppo sconvolge, naturalmente, tutto il mondo dello sport, se fosse confermata. Secondo i media degli Stati Uniti Kobe Bryant è morto in un incidente in un elicottero…”.
Buio. Lascio quello che stavo facendo, cambio finestra sul pc mentre ascolto, cerco nei vari media sperando di trovare non la notizia ma la smentita. In lacrime, la partita alla radio non m’interessa più.
Il Napoli batterà i bianconeri ma è come se quella partita si stesse disputando in un’altra dimensione.
Mamba Out è l’unica cosa che mi rimbomba nella mente mentre continuo ad ostinarmi a non crederci. Quella smentita non verrà mai.
Io lo ricordo, in maniera nitida, come poche altre occasioni nella mia vita. E so che chi legge, quasi sicuramente, avrà impresso nella mente dove si trovava e cosa stesse facendo in quell’Italia che ancora s’illudeva di non poter essere raggiunta dal covid-19, salvo essere brutalmente smentita qualche settimana dopo.
Passano 3 anni, sono al PalaBigi. A largo Kobe e Gianna Bryant. La placca ha uno strato di polvere sul vetro protettivo, istintivamente lo pulisco, come se mi facesse male anche solo la remota possibilità che quel ricordo sbiadisse, come se volessi ringraziare Kobe nell’unico modo rimastomi.
5 anni dopo riesce difficile non fermarsi su video o reels che lo riguardano, non emozionarsi ancora quando senti le parole che Jordan e Shaq gli hanno dedicato.
“Una parte di me è morta con lui” disse il 23 che in Kobe vide un suo erede o, quantomeno, il giocatore più vicino a lui per caratteristiche tecniche e per mentalità.
Sì, la Mamba Mentality altro non è che la Jordan Mentality.
Ebbi modo di confermarlo quando presentai il libro “Il mio Kobe” di Christopher Goldman-Ward, suo amico e compagno di squadra nelle giovanili della Pallacanestro Reggiana, chiedendolo proprio all’autore che così bene aveva conosciuto il giovane ragazzo che sarebbe diventato leggenda.
Ma fu lo stesso Kobe ad ammettere l’influenza di Michael, affermando che fosse “il mio fratello maggiore, il mio mentore”.
Kobe l’esigente, come Jordan lo era ai tempi dei Bulls, Kobe che ordinava ai compagni di togliersi le scarpe con il suo marchio perchè non stavano dimostrandosi all’altezza d’indossarle, come Jordan attaccava frontalmente chi non riteneva stesse dando abbastanza.
Sembrava quasi di vedere la messa in pratica dello slogan “Be like Mike” di un indimenticabile spot diretto da Spike Lee, solo che il 24 l’aveva preso davvero sul serio.
“Tutto ciò che vedete in me viene da lui”.
Con una differenza.
Kobe è cresciuto da noi, ha imparato i fondamentali da noi quando era soltanto “il figlioletto di Jelly Bean” come veniva soprannominato suo padre Joe, stella a Reggio Calabria, Rieti, Pistoia e Reggio Emilia, che la scorsa estate l’ha raggiunto, ovunque si trovino ora.
Kobe parlava un italiano migliore di tanti che qui sono nati, con quel suo modo anche un po’ balcanico di spronare anche attraverso l’insulto, per informazioni rivolgersi a Sasha Vujacic o a Pau Gasol.
Sì, quel Pau Gasol, o Zio Pau, come lo chiamavano sia Gianna, andata via con lui, che Capri, le due figlie avute da Vanessa.
Quel fratello contro cui Kobe non ebbe remore a lanciarsi in avvio di una finale olimpica per marcare il territorio, lo stesso con cui andò a complimentarsi a partita finita, a sfida vinta, lo stesso a cui fece subito capire che ai suoi Lakers si andava per vincere, altrimenti era inutile anche avvicinarsi allo Staples Center.
Ma qui, nello Stivale, Kobe era anche riuscito ad essere sé stesso forse per l’ultima volta.
Rientrato negli USA, infatti, era talmente chiaro che il suo talento fosse soverchiante rispetto alla norma, che presto dovette crearsi una maschera, un personaggio che tutti abbiamo identificato nel Black Mamba e con il quale abbiamo voluto sempre interfacciarci, che abbiamo sempre voluto idolatrare.
Eppure a Reggio Emilia ci sono, ancora oggi, persone che vorrebbero rivedere il proprio vecchio amico solo per “andare a mangiare un gelato”.
Ricordo un’altro aneddoto della presentazione che condussi con Christopher, gli chiesi se nei suoi piani ci fosse dedicarsi alla formazione dei giovani cestisti anchein Italia.
Mi disse di sì.
5 anni ed una pandemia globale dopo il ricordo resta nitido, Kobe.
Perchè avevi ragione tu, gli eroi passano, le leggende sono per sempre.