18 anni sono un lasso di tempo significativo.

Sono gli anni che passano tra la nascita e la maggiore età, per fare un esempio.

A febbraio 2006 l’Italia del pallone aveva ancora 3 Mondiali in bacheca, la Spagna del basket ancora nessuno. Andrea Bargnani non aveva ancora giocato un minuto in NBA.

Napoli e Milano, 18 anni dopo, in una Final Eight.

Allora furono i quarti di finale lo scenario stabilito dalla classifica finale e Milano, come la GeVi di quest’anno, arrivava alla manifestazione da numero 7 del tabellone.

Ma forte di aver battuto per due volte Greer e compagni, cosa che instillò una certa sicurezza ai giocatori allora allenati da Sasha Djordjevic e una grande voglia di rivincita nei partenopei, raffigurata fedelmente dal racconto che ne fa Valerio Spinelli: “Avevamo il turno d’allenamento dopo di loro, quando arrivammo al campo c’era Djordjevic che parlava alla squadra, suonò la sirena che segnava la fine del turno e Ansu Sesay entrò in campo palleggiando forte, noi lo seguimmo. Djordjevic dovette lasciare a metà il discorso. Fu lì che cominciammo a vincere quella partita”.

Fu lì che la Carpisa, quella splendida squadra allenata da Piero Bucchi, cominciò a vincere la Coppa.

Era un campionato decisamente più equilibrato, quello, con almeno 4 o 5 squadre candidate credibili allo scudetto e tante insidie subito dietro. Oggi la GeVi è la Cenerentola imbucata al ballo.

Un ballo che Napoli vuole vivere nel basket anche per dimenticare l’amarissimo post scudetto del calcio.

Napoli e Milano, una battaglia di stereotipi ormai anche un po’ stantii ai quali, per convenienza, l’una e l’altra si attaccano a fasi alterne.

Nord contro Sud, una diatriba affrontata nello sport ma che andrebbe affrontata su altri campi, ma questa è un’altra storia.

Tra le due tifoserie non c’è amore ma sì rispetto, tanto che il tifo organizzato napoletano ha espresso solidarietà quando, in occasione di una trasferta al PalaBarbuto contro Scafati (allora priva del PalaMangano), i tifosi milanesi si rifiutarono di entrare nel palazzetto per protesta contro le norme restrittive imposte dalle autorità pubbliche.

La finale di oggi, però, ha un significato che va al di là di tutte le storie trite e ritrite che vengono associate alle conquiste sportive della città del Golfo.

Non è un riscatto sociale, lasciamo perdere questa retorica sterile, anzi dannosa. Quello, Napoli, dovrà trovarlo nella maggior consapevolezza dei propri diritti da parte dei suoi cittadini, senza appioppare allo sport compiti che non gli spettano.

È un riscatto, quello sì, di un movimento vilipendiato da anni di gestioni scellerate tra battenti chiusi anzitempo, bonifici ‘sui generis’ e stipendi non pagati. Il tutto sintetizzato da uno striscione apparso all’esterno del PalaBarbuto che recitava: “Sei fallimenti in otto anni. Vergogna!”.

Anni che hanno rischiato di distruggere una passione che è rimasta a covare come brace sotto le ceneri delle varie società susseguitesi, dalla Rieti trasferita a Napoli da Papalia in poi.

Anche il progetto inizialmente creato da Ciro Ruggiero e arrivato in A2 dopo la Final 4 di Montecatini ha vissuto un momento di grande incertezza dopo la retrocessione avvenuta ai playout contro Roseto.

È lì che tre famiglie imprenditoriali napoletane, Grassi, Tavassi e Amoroso, hanno dato il via a quella che chiamavano ‘lucida follia’.

A loro, a chi c’è stato dagli inizi, in esilio nel piccolo palazzetto, una palestra, di Casalnuovo di Napoli, va il merito di aver ricostruito con fatica una reputazione alla pallacanestro partenopea, dopo che la parola Napoli, nei corridoi della FIP, era finita per essere pronunciata con sarcastici sorrisetti e rapide previsioni di chiusura.

La finale di oggi è il riscatto di chi ha lavorato con serietà, dando basi solide e non rinunciando mai al proprio sogno, anche quando le motivazioni per mollare ci sarebbero state tutte.

Una finale che compensa i momenti di scoramento vissuti in Serie B con l’ormai famigerata questione dell’ambulanza mancante che aveva fatto sospendere la partita contro la Luiss Roma (poi recuperata in quanto il regolamento prevedeva unicamente la presenza di un medico e di defibrillatore, effettivamente presenti nell’impianto di Casalnuovo), o lo sforzo di restare saldi anche quando il covid ha impedito alla città di affezionarsi come sarebbe stato giusto ai giocatori che avrebbero conquistato la promozione.

È stato un viaggio lunghissimo, ma i tanti sold out di questa stagione, finalmente, ripagano chi ha remato controcorrente, i proprietari ma anche dirigenti storici come Flavio d’Isanto, Cristian Andrisani, Alessandro Di Fede, Riccardo Gattola o Riccardo Marziantonio, e membri dello staff tecnico come Armando Trojano.

Stasera i pronostici non possono che arridere alla corazzata Olimpia Milano, ma forse è la cosa meno importante.

Perchè questa finale, per Napoli, non è una vittoria, è solo il premio, inatteso, al vero successo: aver riavvicinato al basket quella che fu la casa di Walter Berry, Alex English, Mark Simpson, Mike Mitchell, Cozell McQueen, Lynn Greer, Mason Rocca, Mike Penberthy o Dontae’ Jones, tra gli altri.

E questo vale più di qualsiasi trofeo. Comunque vada la partita.

 

 

In foto Ennis (Ciamillo Castoria)

Elio De Falco